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Agli inizi degli anni ’60, dopo essere riuscita a dar vita all’omonima Fondazione che negli anni successivi avrebbe continuato e sviluppato il ‘suo’ progetto culturale, Maria Fioroni stese alcune brevi note, a lungo rimaste inedite, per raccontare la storia avventurosa delle raccolte che diedero vita al Museo Fioroni di Legnago. Le riproduciamo ritenendo che sia senza dubbio la ‘presentazione’ più autentica delle collezioni fioroniane.

 

«Ero ancora bambina, quando, nelle valli che si estendono a sud di Legnago, vennero alla luce delle tombe romane. Mi sembrava racchiudessero la storia di misteriosi antichi popoli e fui felice, quando, per le mie insistenze, potei avere un vasetto di vetro verde; non permisi fosse lavato, perché volevo rimanesse come era stato trovato. Da quel vasetto che ancora conservo, e da quella passione di bambina ebbe origine il museo.

Legnago aveva un passato glorioso, ed io volevo ne fosse conservato e tramandato il ricordo, ma lentamente riuscii a rintracciare e a ricuperare cimeli e documenti. Ho lavorato a lungo, vicino a mia sorella Gemma, che divideva la mia passione, tranquillamente, senza curarmi dell’incomprensione che mi circondava e che, a volte, era derisione.

Le prime ricerche le feci nelle valli seguendo le arature, salvando così i corredi funebri che i contadini avrebbero disperso nella fretta di rovistare nelle urne, dove credevano si celassero i tesori della favolosa Carpanea, la città esistita soltanto nella fantasia degli abitanti delle valli. Le tombe erano di coloni romani, e le modeste suppellettili non potevano creare il museo che sognavo. La storia della mia città mi affascinava, e cercai ancora, con la speranza di poter un giorno far luce sul periodo precedente al Mille vagamente conosciuto attraverso i pochi laconici documenti d’archivio.

Nel 1931 venne rinforzato l’argine destro dell’Adige, con i cassoni di fondazione, e sotto la rocca, in un nascondiglio, rinvennero delle armi e delle ceramiche. Io ero a Milano con la mia famiglia, e l’interessante scoperta passò inosservata a tutti. Le ceramiche vennero acquistate dagli antiquari, e le armi furono regalate dal Genio Civile al prefetto di Verona. Il rinforzo dell’argine proseguì oltre la rocca, e qui, in piena terra, vennero trovate ancora delle ceramiche del secolo XV e delle armi. Mi fu difficile ricuperarle per il divieto del Genio Civile, ma nulla mi fermava nelle mie ricerche, perché ero convinta che nel materiale, che casualmente veniva alla luce, vi fosse la storia di Legnago che cercavo. Con le mance, a mezzo di terze persone, ottenni che gli operai mi facessero avere, clandestinamente, le armi barbariche e medievali, che ora costituiscono la raccolta più importante del museo.

Come dissi, nulla mi arrestava nelle mie ricerche ed il seguente aneddoto lo dimostra. Mi avvertirono che una persona possedeva delle armi e delle ceramiche, ma che per timore del Genio non voleva portarmele, né farmi conoscere il suo nome. Questo mistero mi mise di buon umore, e con mia sorella Gemma, seguii tranquillamente il controllore del gas che ci attendeva sul ponte e che da lontano ci faceva da guida. Trovammo il materiale per me prezioso, ci affrettammo ad acquistarlo e ritornammo a casa felici. Mia sorella incaricò una persona di sua fiducia a ritirarlo, e soltanto allora abbiamo saputo che cosa celava il mistero: la proprietaria era uscita da poco dalla prigione e la casa era sorvegliata dalla questura per vari motivi. Grande fu l’indignazione della mia famiglia, che non perdonò a mia sorella l’avermi imprudentemente accontentata.

Era naturale che presso una rocca, aspramente contesa, vi fossero delle armi, ma non era naturale che in un piccolo centro vi fossero tante ceramiche di valore, perciò pensai che a Legnago nel XV secolo fosse esistita una fabbrica. L’archivio comunale era andato distrutto ai primi del secolo XVI, nessun studioso ne aveva mai parlato, perciò trovai, in tutti, l’incredulità. Non mi scoraggiai, e per la certezza che era in me, la cercai per anni seguendo gli scavi delle fognature, poiché erano alla profondità di m. 1,20-1,50 e soltanto in alcune zone. Potei così scoprire tre fabbriche, due si trovavano sotto le case distrutte dai bombardamenti ed una terza a Porto dove trovai il laboratorio, e fu questo che mi permise di stabilire, dopo lunghe ricerche, che le fabbriche erano state distrutte nel maggio 1510, quando de Chaumont conquistò Legnago.

Nel 193<6> qualche giornale cominciò a parlare del museo, vi fu chi ebbe fiducia in me, e mi affidò ricordi di famiglia e di patrioti legnaghesi. Iniziai così il museo del Risorgimento, lo arricchii con autografi, proclami, stampe, medaglie che mi procurai a Milano, non tralasciando, nelle ricerche, neppure i rigattieri di piazza Sinigaglia.

Il primo ambiente che occupai per il museo in embrione fu un salottino, presso l’anticamera, che serviva di passaggio allo studio: due vetrine ai lati del divano, alcune ‘vetrinole’ alle pareti furono sufficienti per i corredi funebri rinvenuti nelle valli. Al materiale romano si aggiunse quello medioevale, furono necessarie nuove vetrine, queste le collocai in una stanzetta fra due salotti. Il museo si estese, i salottini non bastarono più, occupai la sala centrale del primo piano per il Risorgimento, poi un’altra ancora per la guerra 1915-1918, le raccolte continuavano ad aumentare ed io finii con l’occupare nuovi ambienti e anche la camera degli ospiti. Per la sistemazione del museo mi uniformai ai criteri dell’epoca, e copiai le grandi vetrine del Castello Sforzesco di Milano, nelle quali il materiale era abbondantemente esposto. Di questa sistemazione provvisoria è rimasto il ricordo in alcune fotografie.

Nel luglio 1943 dovetti sgombrare gli ambienti adibiti a museo, perché il tribunale di guerra, proveniente dalla Sicilia, aveva requisito quasi tutta la casa. Dopo l’otto settembre venne richiesta dalle S. S., perciò riempii in fretta sacchi e casse, e portai quanto mi fu possibile nella campagna di mia sorella Gemma, ma le armi dovetti riportarle a Legnago, perché era stato emanato l’ordine di consegnarle pena la fucilazione. I carabinieri però non le requisirono, col pretesto che appartenevano ad un museo. Per maggiore sicurezza le seppellii, poi con la mia famiglia lasciai la casa dove si stabilirono i polizei.

Gli Alleati avanzavano, Legnago, già bombardata per i tre ponti sull’Adige, poteva diventare teatro di guerra, perciò decisi di portare in Brianza, dove eravamo sfollati, il materiale del museo. Nel luglio 1944 partii con due camion scassati, gli unici che ero riuscita a trovare; caricai quanto mi fu possibile, in fretta, perché gli autisti temevano le incursioni. Al mattino successivo, ripartii serena. Passata Verona, alcuni contadini ci avvertirono che, ad un posto di blocco, prima di Peschiera, i Tedeschi fermavano e perquisivano gli automezzi, ed io avevo le armi nascoste nei materassi! Per fortuna quei due camion scassati, da poveri sfollati, pieni di roba vecchia, non destarono alcun sospetto, ed i soldati, dopo aver controllato i documenti, ci lasciarono proseguire il viaggio. A Brescia gli apparecchi ci impedirono di sostare. I guasti ai motori ci costrinsero a frequenti soste e soltanto dopo 12 ore di viaggio, arrivai ad Agliate dove mi si attendeva con ansia. Nella villa di mia sorella Bevilacqua mi sentivo tranquilla, ero certa d’aver portato al sicuro il prezioso materiale, ma un giorno vennero degli ufficiali tedeschi per perquisire la casa, ed io allora seppellii nel parco armi e ceramiche. Triste fu il ritorno, i bombardamenti che avevano duramente colpito Legnago, avevano parzialmente distrutta la nostra casa. La ricostruimmo tosto ampliando le scale e alcune sale.

Il museo che avevo iniziato prima della guerra era freddo, ed io volevo fosse vivo. Sapevo che le mie idee erano in contrasto con le nuove concezioni, ma questo non mi impedì di attuarle, quando venne ricostruita la casa, dove ero rimasta sola, con mia sorella Gemma. Le grandi vetrine scomparvero, le sostituii con mobili autentici, in ambienti chiari come voleva la moda del dopo guerra. Constatai, con piacere, che la sistemazione interessava, perciò completai l’arredamento e la decorazione delle pareti. Per la sala delle ceramiche quattrocentesche copiai gli ‘scarlioni’ del Castello Sforzesco di Milano. Dell’epoca ho trovato soltanto la cornice del camino, ma non i mobili che sono del ’600. È invece del castello di S. Angelo Lodigiano il fregio che decora superiormente la sala delle armi rinvenute presso la rocca. Sono preziose per la storia di Legnago, perché dimostrano che per la conquista della cittadina si è combattuto dal 500 al 1500 e sono interessanti per gli studiosi. Le ho illustrate, come ho illustrato le ceramiche, perché Legnago sia conosciuta, anche all’estero, per il suo glorioso passato.

Nel museo non potevano mancare i ritratti degli uomini illustri di Legnago, li feci eseguire dal pittore Zancolli di Verona, e li collocai nel salotto dorato. Del pittore Zancolli sono pure gli acquerelli delle rotte dell’Adige e delle recenti distruzioni che decorano una stanza in perfetto Ottocento, con mobili autentici e con caratteristici scanni davanti alle finestre, sui quali non mancava mai la poltroncina con il posa piedi.

Dedicai una cura particolare al museo del Risorgimento; ai vecchi mobili di casa, altri ne aggiunsi, studiai fotografie, stampe, per creare l’ambiente dove vivevano i patrioti, e il salotto dove le belle dame ricevevano gli amici, ma dove anche si congiurava, quando l’amor di patria non era una vana parola. Se qualche visitatore, entrando nelle sale, accenna a Gozzano o alla contessa Maffei, mi sembra di essere riuscita nel mio intento. Tutto è autentico, dai mobili ai lampadari, e per rompere il meno possibile l’armonia dell’ambiente, mi sono limitata a mettere i cimeli, sotto vetro, sui tavoli a muro, mentre su quelli rotondi ho affastellato quei graziosi ninnoli che non mancavano mai nei salotti ottocenteschi. Il cavalier Italo Frattini e la sua famiglia hanno voluto, generosamente, donare al museo i mobili della stanza dell’albergo Paglia dove dormì Garibaldi il 10 marzo 1867. Vi erano un letto, un tavolino da notte, un mobile a lavabo, un attaccapanni in ferro, un tavolo ovale. Per completare l’ambiente mancava il caminetto di marmo regalato da tempo ad una famiglia legnaghese. Lo feci copiare perché la stanza fosse esattamente come allora, e vi riuscii per le preziose indicazioni del cavalier Frattini. È a righe rosse, sul caminetto, fra due candelabri di ottone, vi è il berretto di velluto ricamato in oro, donato al museo dalla contessa Emanuela Malaguzzi Valeri; sul tavolo ovale, presso una lampada a petrolio ho collocato il calamaio di rame argentato che aveva conservato il signor Azuma Raimondi, all’attaccapanni è appeso il bastone animato, regalato da Garibaldi al suocero di mia sorella Bevilacqua.

Le raccolte occupavano quasi tutta la casa, per noi era rimasto soltanto un appartamento, ma mia sorella Gemma desiderò vi sistemassi il materiale della guerra 1940-1945; l’accontentai, e il museo si estese fino alla soglia delle nostre camere da letto, già destinate alla guerra 1915-1918. Nelle sale modernamente arredate, vi sono piani di battaglia, proclami, medaglie, bandiere; alcune sono lacere, altre insanguinate. Quella nazionale della divisione Acqui, decorata con quattro medaglie d’oro è nel sacrario di Cefalonia e Corfù dove sono conservati cimeli regalati al museo dai familiari di padre Formato, il padre che assisté gli ufficiali fucilati alla casetta rossa. Non riguarda il museo, ma la mia famiglia, la sala orientale dove sono conservati i trofei di caccia grossa e i ricordi di viaggi di mio fratello Oreste e di mio nipote Marino Bevilacqua.

L’amministrazione comunale, che aveva compreso il nostro sentimento, con delibera del 2 novembre 1950 consegnò a mia sorella Gemma e a me, per il museo, le lapidi, gli stemmi, le colonne, il leone di S. Marco della distrutta polveriera veneziana, che erano conservati nei magazzini del comune. Li collocai nel giardino e nella veranda con i capitelli corinzi, e i resti di colonne che rinvenni fra le macerie della distrutta chiesa di Porto.

Ebbi poi la soddisfazione di constatare che anche la Soprintendenza alle Antichità di Padova approvava la mia opera, e l’appoggiava destinando al Museo Fioroni il materiale rinvenuto nelle valli di Villa Bartolomea e di Castagnaro. Per degnamente sistemarlo, ridussi a museo il cortile e i fabbricati rustici ad esso adiacenti. Il merito di questa costruzione o meglio adattamento, va all’architetto Forlati, proto di S. Marco, che, comprendendo il mio sentimento, prestò con amore la sua disinteressata opera. Nel cortile creò un suggestivo ambiente, con il pozzo, le lapidi, i cippi romani. Nei rustici ricavò quattro sale e le completò con moderne vetrine dove è sistemato il materiale romano e preromano. Nel Museo Archeologico sono conservati anche un mosaico in tassellato bianco e nero e un pavimento in mattoni venuti alla luce durante gli scavi eseguiti dalla Soprintendenza nella località denominata Venezia Nuova. Contemporaneamente al museo avevo creato una biblioteca storica, ma interessava pochi studiosi e Legnago aveva necessità di una biblioteca pubblica; questo desiderio mi fu ripetutamente espresso ed io lo soddisfeci. Ricorsi ancora al gentile architetto Forlati, che pazientemente mi accontentò, e ridusse un cadente granaio in una biblioteca, con quattro sale compresa quella delle conferenze. L’arredamento chiaro, la luce diffusa creano un ambiente luminoso e riposante; vi si soffermano volentieri gli studiosi per consultazioni, e i ragazzi per leggere, soddisfatti che una sezione sia tutta per loro.

Ora la mia opera è terminata, poiché ho creato l’ambiente culturale necessario ad una cittadina come Legnago protesa verso un avvenire degno del suo passato».